L’Afghanistan, cuore e crocevia dell’Asia, tradito e sanguinante.
“Quale speranza per l’Afghanistan?” è il titolo dell’incontro organizzato sabato 18 settembre alla Camera di Commercio dal nostro Liceo, con testimoni d’eccezione, per far luce sulla complessa situazione afghana. Sul palco a parlare Luigi Geninazzi, giornalista inviato per Avvenire, testimone diretto dell’inizio della guerra condotta da statunitensi e alleati nel paese nel 2001, e Alì Ehsani, afghano cristiano, scappato dal suo paese negli anni ’90 e approdato in Italia dopo un viaggio drammatico durato cinque anni, laureato alla Sapienza di Roma in Giurisprudenza. A moderare l’incontro la preside del Liceo Paola Perossi.
Geninazzi ha ripercorso l’ultimo secolo della storia travagliata del paese al centro dell’Asia e “tomba degli imperi”, soffermandosi in particolare sugli ultimi vent’anni di guerra a partire dalla realtà di cui lui stesso è stato testimone nel suo lavoro di reporter. «Sono stato a Kabul varie volte – ha raccontato Geninazzi – quella afghana è una realtà complessa che rifugge da semplificazioni». E proprio nell’approccio semplicistico del “Nation building” condotto dagli americani il giornalista ha rintracciato l’origine della tragedia andata in scena dopo il 15 agosto. «Non hanno preso in considerazione la complessità tribale afghana né le differenze tra le città e le campagne. Un approccio semplicistico che alla fine ha tradito quegli afghani che in questi vent’anni hanno creduto nella libertà e nella democrazia».
Ehsani, testimone diretto della tragedia afghana, ha invece ripercorso le tappe, drammatiche, del suo viaggio che dal suo paese d’origine lo hanno condotto in Italia. La morte dei genitori durante la guerra civile, la decisione del fratello maggiore di andare in Europa, la prigionia a Teheran dove, ha detto: «Ho vissuto Auschwitz, anche se non c’erano i forni crematori. All’entrata la scritta: “Qui Dio non esiste”. Ci torturavano e ci picchiavano, io avevo nove anni». Poi la fuga verso la Turchia, la morte del fratello nel mar Egeo nel tentativo di raggiungere la Grecia e infine il viaggio che lo ha portato a Roma. «Ho lottato e ho sempre avuto la speranza che potesse esserci un bene più grande per la mia vita». Una speranza sostenuta dal ricordo costante dei genitori, del fratello e di una fede cristiana sempre tenuta viva. E ha concluso: «Mio padre mi ripeteva che la cultura è l’unica cosa che nessuno può portarti via; nella possibilità di poter avere un’educazione e nella fede nel bene che ho incontrato nel mio lungo viaggio ho riposto la speranza per il mio futuro».
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